segunda-feira, 29 de novembro de 2010

A CONQUISTA DO ALEMÃO





FOTO DO DIARIO DE NOTICIAS DE PORTUGAL

Mario Monicelli morto suicida a Roma: padre della commedia all'italiana, è stato regista di più di 60 pellicole


Mario Monicelli morto suicida a Roma



Il regista viareggino si è ucciso lanciandosi dal quarto o quinto piano del reparto di urologia del San Giovanni



Nei suoi film l'Italia che cambiava padre della commedia all'italiana, è stato regista di più di 60 pellicole

Mario Monicelli morto suicida a Roma

Il regista viareggino si è ucciso lanciandosi dal quarto o quinto piano del reparto di urologia del San Giovanni


Mario Monicelli (Errebi)
MILANO - Un volo dal quinto piano dell'ospedale San Giovanni di Roma. Scompare così Mario Monicelli, ultimo grande maestro del cinema italiano. Il regista si è ucciso lanciandosi, intorno alle 21 di lunedì sera, dal quinto piano del reparto di urologia dell'ospedale San Giovanni di Roma, dove era ricoverato da domenica. Il cineasta aveva 95 anni e soffriva di un tumore alla prostata. Il corpo di Monicelli è stato trovato dal personale sanitario dell'ospedale a terra, disteso nei viali vicino alle aiuole, a pochi metri dal pronto soccorso. Monicelli non ha lasciato nessun biglietto a spiegazione del suo gesto. Sul posto sono arrivati amici e familiari. Al San Giovanni sono giunti anche gli agenti del commissariato Celio per ricostruire quanto accaduto e la presidente della Regione Lazio, Renata Polverini. «La tragica morte di Mario Monicelli ci lascia sgomenti e ci addolora profondamente» ha detto la governatrice. La notizia del suicidio in pochi secondi ha fatto il giro del web: commenti, foto, ricordi, riflessioni sono postati velocemente su Facebook e Twitter, mentre su YouTube i video del maestro hanno raccolto numerosissimi clic.

STANCHEZZA E INSOFFERENZA - Prima il giro per la terapia poi, una volta rimasto da solo nella stanza doppia occupata da lui soltanto, Monicelli ha raggiunto la finestra e si è gettato nel vuoto: questa a quanto si apprende, la dinamica del suicidio del grande cineasta. La tragedia si è consumata nella palazzina principale dell'ospedale. Stando ad alcune testimonianze, il regista aveva mostrato stanchezza e insofferenza per la malattia che lo aveva colpito a 95 anni. «Era stanco di vivere» ha riferito un sanitario. La moglie del cineasta, in giacca nera e pantaloni grigi, è uscita con il volto sofferente e visibilmente provato dalle lacrime, ma con lo sguardo alto, senza dire nulla. Anche il padre del regista, il noto scrittore e giornalista Tomaso Monicelli, morì suicida nel 1946.

Mario Monicelli suicida a 95 anni


MAESTRO CAUSTICO - Viareggino, classe 1915, Monicelli è considerato uno dei padri della commedia all'italiana. Negli ultimi anni di vita gli è toccato l'ingrato compito di commentare la morte di numerosi e cari colleghi. Lo ha fatto con arguzia e cinismo e senza sentimentalismi. La vena caustica e amarognola delle sue opere, l'aveva di recente riservata alle sue uscite pubbliche. Aveva preso parte al Viola Day di febbraio e al primo no B day nel dicembre scorso a Piazza San Giovanni. E aveva incitato i giovani a tenere duro: «Viva voi, viva la vostra forza, viva la classe operaia, viva il lavoro. Dobbiamo costruire una Repubblica in cui ci sia giustizia, uguaglianza, e diritto al lavoro, che sono cose diverse dalla libertà». Era stato anche a Montecitorio con i colleghi nel luglio 2009 per protestare contro i tagli al Fus. L'Italia era per lui «una penisola alla deriva». Il suo quartiere «d'adozione» a Roma era Monti, l'antica Suburra, con ancora gli artigiani a lavorare sull'uscio, al quale il cineasta aveva dedicato una delle sue ultime opere. Abitava al 29 di Via dei Serpenti, proprio sopra un noto gelataio. Viveva in un piccolo loft, un bilocale dai colori sgargianti che poteva essere quello di uno studente fuori sede.

I capolavori di Monicelli: titoli e protagonisti


«POSSO CAPIRE QUESTO GESTO» - La notizia della scomparsa del regista ha colto di sorpresa il mondo del cinema e non solo. «Quello che è successo mi ha lasciato estremamente basito» ha commentato il produttore Aurelio De Laurentiis. «Io che lo conoscevo profondamente e sapevo della sua grande dignità e del suo desiderio di essere sempre indipendente e autonomo, posso capire questo gesto. Ultimamente aveva perso anche la vista ma fino all'ultimo era stato capace di una deambulazione perfetta. Insomma una persona sana che non tollerava l'idea di poter dipendere da qualcuno». «Sono attonito» ha detto Carlo Verdone, accogliendo con grande sgomento la notizia della morte tragica di Mario Monicelli. «Era probabilmente una persona stanca di vivere, che non sosteneva più la vecchiaia. L'ho apprezzato molto come grande osservatore e narratore - ha aggiunto l'attore romano - anche se a volte con condividevo il suo cinismo. Era gentile, cordiale, ma di poche parole. Un anno fa - ha ricordato Verdone - mi capitò di fargli gli auguri a Natale. Rimase sorpreso: gli auguri, mi disse, non li fa più nessuno». «Non posso andare avanti: devo dirvi che è morto Mario Monicelli. Lo avremmo tanto voluto qui, ma era malato e adesso non c'è più» ha detto Fabio Fazio durante la diretta di Vieni via con me, il programma condotto con Roberto Saviano su Raitre. Il pubblico in studio ha accolto la notizia con un lungo applauso. «Non so che cosa si dirà domani di quello che è successo - ha commentato Giovanni Veronesi -, ma una cosa va detta: non ho mai sentito nessuno che si suicida a novantacinque anni. Era davvero speciale». Veronesi si è detto «scombussolato»: «L'avevo sentito poco tempo fa - ha spiegato - e pur sapendo che era all'ospedale, non lo sono mai andato a trovare. Peccato». «Provo un grande dolore» ha scritto in una nota il presidente della Provincia di Roma, Nicola Zingaretti.

I SUCCESSI - Monicelli esordì nel cinema giovanissimo con il corto, firmato insieme ad Alberto Mondadori, Cuore rivelatore. Padre della commedia all'italiana, con i colleghi come Dino Risi, Luigi Comencini e Steno, è stato regista di oltre 60 film e autore di più di 80 sceneggiature. Quella di Monicelli è stata una vita dedicata interamente al cinema, al ritmo di quasi un film all'anno. Una produzione ininterrotta da I ragazzi della via Paal (1934) fino a Le rose del deserto (2006) e la sua ultima opera, il corto della sua carriera Vicino al Colosseo...c'è Monti, in programma fuori concorso alla 65esima Mostra del Cinema di Venezia. Fra i suoi grandi successi, Guardie e ladri (due premi a Cannes nel '51), nel pieno del suo sodalizio con Totò, I soliti ignoti (nomination all'Oscar), La Grande guerra (1959) trionfatore a Venezia con il Leone d'oro, L'armata Brancaleone (1965). Sono gli anni dell'amicizia con Risi, degli scontri con Antonioni, del controverso rapporto con Comencini, del trionfo della commedia all'italiana e dei "colonnelli della risata". Inventa Monica Vitti attrice comica in La ragazza con la pistola (1968); nel 1975 raccoglie l'ultima volontà di Pietro Germi che gli affida la realizzazione di Amici miei. Nel 1977 recupera la dimensione tragica con Un borghese piccolo piccolo. Seguono fra gli altri Speriamo che sia femmina (1985) e il feroce Parenti serpenti (1993) con cui dimostra di saper leggere le trasformazioni della società italiana con l'acume e la cattiveria di sempre. È del 2006 il tanto desiderato ritorno sul set di un film, rallentato da ritardi e difficoltà produttive, con Le rose del deserto, liberamente ispirato a Il deserto della Libia di Mario Tobino e a Guerra d'Albania di Giancarlo Fusco.

OPERA A NEW YORK - Proprio in questi giorni a New York è stato presentato in chiave retrospettiva un dei film del neorealismo di Mario Monicelli, Risate di Gioia, con Anna Magnani. Il film rientra nell'ambito della retrospettiva che il Linclon Center dedica alla figura di Suso Cecchi D'Amico, che lavorò con Monicelli alla sceneggiatura del film. «Risate di gioia» è stato presentato insieme a una serie di altri sei film del neorealismo italiano.

Redazione online
29 novembre 2010(ultima modifica: 30 novembre 2010)

Mario Monicelli suicida-se aos 95 anos



Cineasta italiano Mario Monicelli suicida-se aos 95 anos




DA FRANCE PRESSE, EM ROMA

O cineasta italiano Mario Monicelli, que morreu nesta segunda-feira em Roma aos 95 anos, era considerado um dos mestres da comédia à italiana, gênero que o elevou à celebridade.



Mario Monicelli suicidou-se hoje, atirando-se da janela do hospital San Giovanni de Roma onde estava internado.

Entre suas obras-primas, deixa para a posteridade filmes como "O Exército de Brancaleone", "Quinteto Irreverente", "Meus Caros Amigos" e outras muitas produções.

Em "Meus Caros Amigos", encontramos o ator francês Philippe Noiret como um jornalista florentino, partindo para a realização de golpes com seus companheiros quinquagenários, entre eles Ugo Tognazzi, Adolfo Celi, Gastoni Moschin e Duilio del Prete, seguindo-se "O Quinteto Irreverente", a história do enterro do mesmo jornalista - um de seus melhores filmes.

Mario nasceu em 15 de maio de 1915 em Viareggio, na Toscana, onde passou toda a infância.

"I soliti ignoti", Os Eternos Desconhecidos, de 1958, apresenta um elenco especial, composto por Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni, Totò e Claudia Cardinale, sendo considerado o primeiro filme do filão da 'commedia all'italiana'.

Em 1959, seu filme "A Grande Guerra" ganhou o Leão de Ouro do Festival Internacional de Cinema de Veneza, rendendo ainda sua primeira indicação ao Oscar. A segunda viria em 1963, com "I compagni".

A partir de 1934 - com menos de 20 anos -, estreou dois curtas-metragens com seu amigo Alberto Mondadori: "Cuore rivelatore" e "I ragazzi della via Paal". Este último foi destaque na Mostra de Veneza, criada dois anos antes.

Até o final de 1940, colaborou em cerca de 40 filmes, às vezes como roteirista, outras como diretor-assistente.

A partir de 1953, Monicelli lançou-se sozinho na direção, tornando-se um mestre de um gênero de comédia que colocava em cena problemas da sociedade da época, em plena evolução.

Trabalhou com os maiores atores da Itália, de Totò, Aldo Fabrizi, Vittorio De Sica, a Sophia Loren, Marcello Mastroianni, Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Anna Magnani, Alberto Sordi, Nino Manfredi, Paolo Villaggio, Monica Vitti, Enrico Montesano, Giancarlo Giannini, Philippe Noiret, Giuliano Gemma, Stefania Sandrelli, Gian Maria Volonté e Leonardo Pieraccioni.

Monicelli, que também produziu para o teatro e a televisão, assinou 65 filmes.

sábado, 27 de novembro de 2010

130 anos do INSTITUTO DE EDUCAÇÃO DO AMAZONAS



De manhã funcionava o GRUPO ESCOLAR PRINCISA ISABEL, onde estudei, na década de 40.
Foi feito por Alvaro Maia sobre as fundações do palácio do governo não concluído por Eduardo Ribeiro, em Manaus, cuja planta está ao lado. CLICK PARA AMPLIAR.

sexta-feira, 26 de novembro de 2010

Sucuri de quase 6 metros é capturada no Triângulo Mineiro


Sucuri de quase 6 metros é capturada no Triângulo Mineiro



Réptil estava atacando outros animais em sítio da região


Uma cobra sucuri de quase 6 metros foi capturada em um sítio de Campina Verde, no Triângulo Mineiro. O animal pesa aproximadamente 80 kg e foram necessários cinco homens para carregá-la.

O réptil estava atacando animais em um sítio da cidade. O dono da fazenda chegou a flagrar a cobra tentando engolir uma capivara, mas chegou a tempo de evitar a morte do roedor.

Com o apoio da Polícia Militar de Meio Ambiente, os moradores usaram um alçapão para prender a sucuri. A cobra, mesmo imobilizada, deu trabalho aos militares por causa do peso.

Ela foi solta logo depois em uma mata na cidade de Iturama, também no Triângulo.

Segundo a PM de Meio Ambiente, a sucuri pode viver até 30 anos e é a segunda maior serpente do mundo - atrás da píton reticulada. As fêmeas são maiores do que os machos e a espécie tem fama de ser perigosa.

RAIOS




Foto: National Geographic

China alerta contra atos militares em sua zona econômica






China alerta contra atos militares em sua zona econômica

Advertência de Pequim é feita após Pyongyang alertar que Seul e EUA aproximam Península da Coreia da guerra com manobras militares


iG São Paulo | 26/11/2010 12:45

A China alertou nesta sexta-feira contra quaisquer ações militares em sua zona econômica exclusiva, em resposta à realização a partir do domingo de manobras conjuntas entre EUA e Coreia do Sul. Washington enviou um porta-aviões para participar dos exercícios militares, que devem durar quatro dias. A zona econômica exclusiva é uma área naval de até 200 milhas náuticas a partir da costa de um país.

"Nos opomos a qualquer ato unilateral conduzido na zona econômica exclusiva da China sem aprovação", declarou o porta-voz do Ministério das Relações Exteriores da China, Hong Lei, em resposta sobre qual a posição chinesa em relação ao envio do porta-aviões americano George Washington à região para participar de exercícios navais militares com a Coreia do Sul.


Foto: AP
Visitantes caminham ao lado de tela que mostra vídeo de combate da China contra os EUA na Guerra da Coreia (1950-1953) em ponte destruída no conflito em Dandong, China
A situação atual na Península Coreana é complicada e sensível. Todas as partes devem mostrar moderação, trabalhar em favor da distensão, da manutenção da paz e da estabilidade da península, e não o contrário", completou Hong.

Coreia do Norte faz advertência

A declaração da China foi feita após a Coreia do Norte, que lançou disparos contra uma ilha sul-coreana na terça-feira deixando quatro mortos, ter afirmado nesta sexta-feira que os exercícios militares conjuntos entre EUA e Seul aproximam a região de uma guerra.

"A situação na Península Coreana está à beira de uma guerra por causa do imprudente plano desses elementos de realizar novos exercícios de guerra voltados contra a Coreia do Norte", afirmou a KCNA, agência oficial de notícias norte-coreana.

Obama leva cotovelada no rosto


Obama leva cotovelada no rosto durante jogo de basquete e toma 12 pontos

DAS AGÊNCIAS DE NOTÍCIAS

O presidente dos Estados Unidos, Barack Obama, teve que levar 12 pontos no lábio depois de uma cotovelada violenta durante um jogo de basquete, informou a Casa Branca.

Obama, fã e jogador frequente de basquete, estava jogando com amigos e familiares em um jogo cinco contra cinco em Fort McNair, uma base militar americana em Washington.

Tim Sloan/AFP

DESMATAMENTO NO ACRE


FOTO DE MARGI MOSS

AFLUENTE DO ACRE

quinta-feira, 25 de novembro de 2010

A ROTA DE FUGA





O delegado Rodrigo Oliveira, subchefe operacional da Polícia Civil, disse, por volta das 17h40 desta quinta-feira (25), que a Vila Cruzeiro, na zona norte do Rio de Janeiro, "agora pertence ao Estado e à sociedade carioca". A favela está ocupada por aproximadamente 200 policiais civis e militares - o Bope (Batalhão de Operações Especiais) também continua no local.

Ainda segundo o delegado, as operações continuam a ser realizadas na comunidade para que se alcance todos os objetivos. Ele disse ter presenciado cenas violentas nesta quinta, que caracterizou como um "dia histórico", como carros e caminhões queimados. Ele afirmou ter visto várias marcas de sangue, mas ainda não confirmou mortos.

- Muitos criminosos se deslocaram para o complexo do Alemão, mas ainda há bandidos na Vila Cruzeiro. Os chefes já saíram da Penha.

Os cinco blindados da Marinha que estavam na operação saíram da comunidade e foram para o batalhão de Olaria (16º BPM).

O HARRIER

MERCEDES DE OURO


MERCEDES TOTALMENTE REVESTIDA DE OURO EM DUBAI

Rainha Elizabeth 2ª visita Emirados Árabes Unidos


Rainha Elizabeth 2ª visita Emirados Árabes Unidos após mais de 30 anos


A rainha Elizabeth 2ª visitou uma das maiores mesquitas do mundo nesta quarta-feira, em sua primeira viagem de Estado em mais de 30 anos aos Emirados Árabes Unidos (EAU), rico país árabe do Golfo e com fortes laços com o Reino Unido.



A monarca, de 84 anos, usou um chapéu branco coberto por um véu dourado em sua visita à Grande Mesquita Xeque Zayed, em Abu Dhabi. A mesquita faz parte de um enorme complexo de mármore, e contém a tumba do xeque Zayed bin Sultan al Nahyan, o primeiro presidente dos Emirados Árabes Unidos após ganhar status de Estado, depois de mais de cem anos sob protetorado britânico.

Acompanhada de seu marido, o príncipe Philip, e de líderes dos Emirados, a rainha parou por um momento do lado de fora da mesquita para retirar seus sapatos. Ela estava acompanhada ainda por seu filho, o príncipe Andrews, e o ministro das Relações Exteriores, William Hague.

Marwan Naamani/AFP

A rainha Elizabeth 2ª e seu marido, o príncipe Philip, visitam mesquita em Abu Dhabi

Os laços históricos do Reino Unido com a região remontam ao século 19. Os EAU tornaram-se uma nação em 1971, após mais de um século sob proteção britânica como parte de um armistício para proteger os navios passando pelas importantes rotas até a Índia.

O Reino Unido também teve um papel-chave em desenvolver o Exército e outras instituições no país.

A última visita da rainha aos Emirados foi em 1979, antes de o país passar por uma grande expansão econômica que atraiu trabalhadores e empresas de todo o mundo, incluindo mais de 100 mil britânicos e 4.000 negócios britânicos.

Na quinta-feira, a rainha deve ir para o vizinho Omã, onde o sultão Qabus celebra 40 anos de reinado.

quarta-feira, 24 de novembro de 2010

MONGES REZAM NO CAMBOJA

BARATAS




Mitos, histórias e a importância das baratas são tema de projeto da UFRJ

RIO - Ela é uma das maiores vilãs do mundo animal. Transmite doenças, adapta-se a qualquer ambiente, e, como se não bastasse, é feia. Poucos discordariam de aplicar este julgamento à barata. Mas há quem se esforce para mudar a imagem do inseto. Um grupo do Instituto de Bioquímica Médica da Universidade Federal do Rio de Janeiro (UFRJ) prepara uma série de minidocumentários para provar que a cucaracha é importante na cadeia alimentar, fundamental para a limpeza de material orgânico e, além de tudo, pode até ter uma aparência simpática.



- Existe um confronto urbano entre o homem e a barata - destaca Roberto Eizemberg, que integra a equipe do projeto batizado de "Baratas: procuradas vivas ou mortas". - Não queremos que ninguém crie o inseto em casa. Mas é importante saber como ele é necessário à natureza, e de que formas podemos controlar o seu crescimento populacional nos centros urbanos.

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Existe um confronto urbano entre o homem e a barata
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.O boom das baratas poderia ser evitado com ajuda de sua maior inimiga: a vespa. Ela põe seu ovo no interior da ooteca da barata - uma estrutura de cálcio onde há dezenas de ovos. A larva da vespa, ao nascer, alimenta-se dos embriões da rival em gestação.

A aliança do homem com a vespa seria bem-vinda. O crescimento das metrópoles tem assanhado as baratas. Já existem 200 delas para cada um de nós em São Paulo, segundo o Instituto Nacional de Pesquisas Biológicas. Afinal, com as cidades, aumenta também a produção de lixo, seu habitat por excelência. E, quando se trata delas, nenhum exemplar é desprezível. Uma barata deixa, em média, 750 filhotes em sua vida, produzidos em apenas um ano.

O milagre da multiplicação é especialmente visível nos meses mais quentes. À noite, a inversão térmica faz a temperatura aumentar nas tubulações e diminuir na superfície. Em busca de um tempo mais fresco, as baratas saem dos esgotos e se exibem nas casas alheias.

O calor ressalta uma adaptação sofrida por aquelas que adotaram a cidade como lar: os hábitos noturnos. As 99% que permaneceram no campo preferem circular durante o dia.

- Aquelas que vieram para a cidade trocaram a hora de circular para não se depararem com o homem - explica Suzete Bressan, consultora técnica do projeto e professora do Instituto de Biofísica Carlos Chagas Filho. - Nada assusta mais uma barata do que ser surpreendida enquanto passeia pela madrugada.

Por isso, não precisa gritar: se flagrada por aí, a barata foge. Se capturada, ela aciona seus mecanismos de defesa. Entre seus recursos está a mordida (caso do inseto urbano), estridular (a emissão de um som agudo, comum entre as espécies silvestres) e o uso dos espinhos de suas patas, também visto apenas em algumas delas. Nem os inseticidas são muito eficientes, porque, quando usados em excesso, podem contribuir para a proliferação de um grupo mais resistente ao veneno.

O que não se discute é a capacidade de sobrevivência desse inseto. Não à toa há fósseis do animal de 300 milhões de anos - são, portanto, anteriores aos dinossauros. Em toda a sua trajetória, o inseto sofreu pouquíssimas adaptações em sua anatomia. O desenho das asas, por exemplo, é praticamente o mesmo.

O futuro também não reserva ameaças à barata. Nem um ataque nuclear seria capaz de detê-las.

- Por viverem escondidas em galerias, elas ficam mais protegidas dos efeitos de uma explosão nuclear do que o homem - opina Rozemberg. - Outra demonstração de resistência é o fato de que as baratas têm um sistema nervoso descentralizado, o que permite até que seu corpo resista algum tempo após a cabeça ser arrancada.

Quem quiser decepar a barata terá de suar: as pernas do tipo cursoriais, próprias para correr, tornam-na um dos mais rápidos insetos terrestres. O instinto de defesa abrange até a criação dos filhotes - os ovos, como foi mencionado, ficam dentro de uma cápsula de cálcio, que, embora seja penetrada pela vespa, é suficiente para protegê-la de uma série de outras espécies.

Desprezada pelo homem, a barata apetece ao paladar de aranhas, lacraias, sapos, escorpiões e pássaros. Tem, portanto, um papel inegável na cadeia alimentar.

Mais amplo é o cardápio das próprias baratas. A impressão é de que qualquer objeto pode lhes servir de alimento. As espécies silvestres preferem raízes de plantas e fungos; as urbanas, plástico, isopor, madeira, materiais de fossas. Eventualmente podem apelar para o canibalismo, quando a dieta tradicional é escassa ou sua colônia é invadida. A contaminação de alimentos com uma secreção, aliás, é uma das formas de a espécie marcar território.

A demarcação de seu espaço, a dieta e os locais por onde transita mostram por que a barata não é um modelo de higiene. Seu habitat conta com inúmeros micro-organismos patogênicos, transmissores de doenças que vão da gastroenterite ao herpes. Ainda assim, menos de 40 das 4 mil espécies conhecidas podem ser consideradas pragas urbanas.

Para quem quer estudar essa variedade, o Brasil é um palco privilegiado. Mil espécies são vistas por aqui - entre elas a Blaberus giganteus, nativa da Amazônia, que atinge 10 centímetros de comprimento. Mais comum é se deparar com a Blattella germanica, protagonista de uma disputa diplomática. Os franceses dizem que a espécie é alemã; estes, por sua vez, asseguram que o inseto foi descoberto na França. Por aqui, ela é conhecida tanto como francesinha como por baratinha-alemã.

Curiosidades como esta serão abordadas nos novos vídeos do projeto, que conta com financiamento da Fundação de Amparo à Pesquisa do Rio (Faperj). O material será apresentado em visitas a escolas e no Espaço Ciência Viva, um galpão na Praça Saens Peña, na Tijuca.

- Procuramos desmistificá-la, mostrá-la como um inseto que faz parte da cadeia ecológica, que tem papel inestimável por decompor matéria orgânica - ressalta Eizemberg. - É possível mudar a percepção das pessoas.

E se alguém encontrá-la em casa?

- Aí é melhor pegar o chinelo.

terça-feira, 23 de novembro de 2010

Tomie Ohtake completa 97 anos com exposição de obras inéditas





Tomie Ohtake completa 97 anos com exposição de obras inéditas


FABIO CYPRIANO
DE SÃO PAULO

"Faz tempo que não nos vemos. Você envelheceu, né?", disse Tomie Ohtake, às vésperas de comemorar seus 97 anos, completados anteontem, a este repórter, durante a entrevista sobre sua nova mostra, em seu ateliê.

Tomie Ohtake vai comemorar aniversário de 97 anos no show de Paul McCartney

"Acho que o Ricardo [Ohtake, seu filho] não vai gostar do que eu falei, mas eu não sei guardar as coisas, coloco tudo para fora", sorri.

A pintora costuma ser direta, mesmo que para tanto desagrade um pouco.

Desde pequena, ela queria ser artista e chegou a estudar aquarela na escola, mas o meio conservador em que cresceu no Japão, entre a Primeira e a Segunda Guerra Mundial, não favorecia suas vontades.

A forma que ela encontrou para escapar foi convencer a mãe, em 1936, que vinha visitar o irmão no Brasil. "Eu tinha de dar um jeito de sair do Japão e prometi a ela que vinha para ficar um ano", conta. Três meses depois de desembarcar, Tomie Nakakubo se casava com o engenheiro agrônomo Ushio Ohtake, morto em 1977.


A artista plástica Tomie Ohtake, que completa 97 anos, no ateliê de sua casa, no Campo Belo, em São Paulo

BIFE A CAVALO

Apesar da identidade japonesa, Tomie nunca foi de ficar em gueto. Ela vivia na Mooca, "onde era tudo italiano", relembra-se. Seus filhos estudaram em escola católica e sua dieta vai bem além de sushi e sashimi. "Nunca me esqueço do bife a cavalo que comi, quando desembarquei no Brasil. É uma das minhas comidas favoritas."

Persistência também é outra marca de Tomie. Teve dois filhos e, só após criá-los, quando já estava próxima dos 40 anos, começou de fato sua carreira artística, como autodidata. Então o que estava guardado por tanto tempo começou a aflorar.

E sem parar. Só para a mostra "Pinturas Recentes", que inaugura hoje, ela realizou, em menos de dois anos, 25 telas, todas de grandes dimensões, tendo o círculo como tema central.

Por que o círculo? "É uma forma muito sintética. Trabalhar só com ele é um grande desafio. E ele é também o primeiro desenho que os bebês fazem com os dedinhos", conta, repetindo o gesto.

Em um texto de 1961, o crítico Mário Pedrosa (1901-1981) escreveu que Tomie era "uma pintora que ainda está se formando, numa personalidade já desabrochada", portanto, nela, "a obra corre atrás da personalidade".

Agora, quase 50 anos depois, "Pinturas Recentes" revela como obra e personalidade estão afinadas.

segunda-feira, 22 de novembro de 2010

Preconceito no Brasil


Do Blog do Rudá Ricci

Preconceito no Brasil

A pesquisa da Fundação Perseu Abramo (ver planilha-resumo em nota abaixo) indica algo importante sobre a cultura política e social dos brasileiros. Uso de drogas e ateus são rejeitados com ódio por mais de 40% das respostas. Mas, em seguida, os grupos sociais mais rejeitados são os que têm comportamento sexual considerado anormal (transexuais, garotos de programa, travestis, prostitutas, lésbicas, bissexuais, gays).

Algo impressionante e remonta à uma moral vitoriana (em pleno país tropical, de cultura negra e indígena).

Prolegômenos para uma ontologia do ser social








Prolegômenos para uma ontologia do ser social

Ao contrário do que alguns detratores do marxismo costumam afirmar, Lukács buscava mostrar como não há em Marx um determinismo unívoco da esfera econômica sobre as outras instâncias da sociabilidade: o cerne estruturador do pensamento econômico de Marx se funda na concepção da determinação recíproca das categorias que compõem o complexo do ser social. A base econômica constitui o momento preponderante, mas interage com uma série de superestruturas de forma dialética e recíproca. A Boitempo Editorial publica pela primeira vez em português os Prolegômenos para uma ontologia do ser social, de György Lukács, um dos pensadores marxistas mais importantes de todos os tempos.

Após a publicação da primeira parte de sua Estética, em 1963, o filósofo húngaro György Lukács começou a trabalhar no ambicioso projeto de uma Ética que sintetizaria sua longa trajetória intelectual. Em suas investigações, porém, notou a “necessidade de uma elaboração prévia: a determinação histórico-concreta do modo de ser e de reproduzir-se do ser social”, como aponta José Paulo Netto, professor da Universidade Federal do Rio de Janeiro. Esses esforços são concluídos em 1969 e publicados postumamente com o título de Para uma ontologia do ser social.

Com o objetivo de explicar melhor alguns conceitos apresentados, no início dos anos 1970 Lukács passa a trabalhar no manuscrito do que seriam os Prolegômenos para uma ontologia do ser social: questões de princípios para uma ontologia hoje tornada possível, publicados também postumamente, em 1984, e agora traduzidos pela primeira vez para o português pela Boitempo Editorial.

Um dos pensadores marxistas mais importantes de todos os tempos, Lukács tinha como objetivo ao escrever sua Ontologia reexaminar passo a passo as categorias fundamentais do pensamento de Marx, “iniciando pela retomada das considerações marxianas acerca do trabalho como complexo central decisivo do ser social, passando pelo problema da reprodução, da ideologia, e culminando no tratamento da alienação”, como explicam Ester Vaisman, professora de filosofia da Universidade Federal de Minas Gerais, e Ronaldo Vielmi Fortes, especialista na obra lukacsiana, responsáveis respectivamente pela supervisão editorial e pela revisão técnica da obra, além de autores da completa apresentação à edição brasileira.

Ainda segundo Vaisman e Fortes, o autor apresenta uma denúncia de que o caráter ontológico do pensamento de Marx ficou obscurecido “pela rigidez dogmática em que o marxismo se viu imerso desde a morte de Lenin, que rechaçava a discussão acerca da ontologia, qualificando-a de idealista e/ou simplesmente metafísica”. Ao contrário do que alguns detratores do marxismo costumam afirmar, Lukács buscava mostrar como não há em Marx um determinismo unívoco da esfera econômica sobre as outras instâncias da sociabilidade: “o cerne estruturador do pensamento econômico de Marx se funda na concepção da determinação recíproca das categorias que compõem o complexo do ser social”, como explicam os autores da apresentação. A base econômica constitui o momento preponderante, mas interage com uma série de superestruturas de forma dialética e recíproca.

Além de introduzir e contextualizar a Ontologia – também inédita em português e sendo preparada para publicação pela Boitempo – os Prolegômenos acrescentam a ela novas reflexões e abordagens, complementando-a. Partindo da premissa marxiana de que a realidade deve ser não somente analisada e compreendida mas principalmente transformada, ao redigir este material Lukács tinha nos ombros o peso de uma série de desilusões e derrotas da esquerda no período posterior à Revolução de 1917. Buscava partir de Marx para reformular as perspectivas revolucionárias de então, apontando respostas aos impactos que o stalinismo causara no projeto comunista. Certamente aqueles que ainda se preocupam com uma atuação social transformadora não podem deixar de analisar esta importante contribuição para o pensamento revolucionário.

Segundo Nicolas Tertulian, professor da École de Hautes Études en Sciences Sociales, a obra “tem o valor de um testamento por constituir o último grande texto filosófico de Lukács. Concebida como uma introdução ao texto principal da Ontologia, representa, de fato, uma vasta conclusão”.

Trecho da obra
Nossas considerações visam determinar principalmente a essência e a especificidade do ser social. Mas, para formular de modo sensato essa questão, ainda que apenas de maneira aproximativa, não se devem ignorar os problemas gerais do ser, ou, melhor dizendo, a conexão e a diferenciação dos três grandes tipos de ser (as naturezas inorgânica e orgânica e a sociedade). Sem compreender essa conexão e sua dinâmica, não se pode formular corretamente nenhuma das questões autenticamente ontológicas do ser social, muito menos conduzi-las a uma solução que corresponda à constituição desse ser.

Não precisamos de conhecimentos eruditos para ter a certeza de que o ser humano pertence direta e – em última análise – irrevogavelmente também à esfera do ser biológico, que sua existência – sua gênese, transcurso e fim dessa existência – se funda ampla e decididamente nesse tipo de ser, e de que também tem de ser considerado como imediatamente evidente que não apenas os modos do ser determinados pela biologia, em todas as suas manifestações de vida, tanto interna como externamente, pressupõem, em última análise, de forma incessante, uma coexistência com a natureza inorgânica, mas também que, sem uma interação ininterrupta com essa esfera, seria ontologicamente impossível, não poderia de modo algum desenvolver-se interna e externamente como ser social.

Sobre o autor
Nascido em 13 de abril de 1885 em Budapeste, Hungria, György Lukács é um dos mais influentes filósofos marxistas do século XX. Doutorou-se em Ciências Jurídicas e depois em Filosofia pela Universidade de Budapeste. No final de 1918, influenciado por Béla Kun, aderiu ao Partido Comunista e no ano seguinte foi designado Vice-Comissário do Povo para a Cultura e a Educação. Em 1930 mudou-se para Moscou, onde desenvolveu intensa atividade intelectual. O ano de 1945 foi marcado pelo retorno à Hungria, quando assumiu a cátedra de Estética e Filosofia da Cultura na Universidade de Budapeste. Estética, considerada sua obra mais completa, foi publicada em 1963 pela editora Luchterhand. Já seus estudos sobre a noção de ontologia em Marx, que resultariam oito anos depois na Ontologia do ser social, iniciaram-se em 1960. Faleceu em sua cidade natal, em 4 de junho de 1971.

domingo, 21 de novembro de 2010

Rogel Samuel: Morre Almeida Prado aos 67 anos





Morre Almeida Prado aos 67 anos


Rogel Samuel

Um dia eu estava na Sala Cecília Meireles e esperava o começo de um concerto.

Não me lembro se perguntei algo, mas sei que iniciei a conversa com um senhor muito simpático que estava perto.

Falamos sobre o programa que ia ser tocado.

Eu disse:

- Não conheço essa música.

- É minha, disse-me ele.

Era Almeida Prado. Eu não o conhecia pessoalmente.

Almeida Prado morreu na manhã deste domingo aos 67 anos, em São Paulo.

Era um dos artistas mais importantes do país, e estava internado há 10 dias na UTI do hospital Panamericano após sofrer
uma parada respiratória.

"Paulista nascido em Santos, compôs a primeira peça aos nove anos. Prado acumulou mais de 400 composições e diversos prêmios por sua obra nos 58 anos de carreira. Ele deixa duas filhas e dois netos.

O corpo do compositor será velado, a partir das 12h30, no teatro São Pedro, na Barra Funda. O enterro está marcado para acontecer às 16h30 no cemitério da Consolação.

"O Almeida talvez fosse o maior compositor vivo do país. Ele tinha uma importância muito grande para a música nacional", disse o maestro João Carlos Martins, amigo pessoal de Almeida Prado.

HOMENAGEM

Um concerto em memória ao compositor será realizado no próximo fim de semana, em Santo André, no ABC Paulista. A obra "Sinfonia dos Orixás", composta por Prado, será interpretada pela Orquestra Sinfônica de Santo André. A homenagem será regida pelo maestro Carlos Moreno, genro do compositor.

"A morte dele é uma perda muito grande. Além do carinho e amizade, fica o exemplo e a obra extensa desse gênio da música brasileira", afirmou Moreno.

sábado, 20 de novembro de 2010

Machado de Assis traduz em conto o terror da escravidão


Vermelho
www.vermelho.org.br

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20/11/2010

Machado de Assis traduz em conto o terror da escravidão


No dia da Consciência Negra, o Vermelho publica Pai contra mãe, um conto do nosso maior escritor sobre esta que foi uma chaga dilacerante da sociedade brasileira durante quase quatro séculos – a escravidão –, cujas sequelas se fazem sentir até os nossos dias, tanto na dura realidade em que vivem os descendentes dos escravos, como na psicologia social.
Machado de Assis é autor de uma obra comparável à dos grandes nomes da literatura universal. Com o inconfundível realismo característico da sua obra, Machado não expõe apenas a grande mazela, mas a particulariza, ao desvendar a pequenez da alma humana, consumida nas misérias do cotidiano e na luta mesquinha e egoísta pela sobrevivência. O texto segue abaixo.

Sobre a importância do escritor, oferecemos ao leitor um artigo de Aluízio Alves Filho, extraído da revista Achegas, em que ele conta um pitoresco episódio que ligaria a figura e a obra de Machado de Assis ao fundador do Partido Comunista, Astrogildo Pereira. Leia aqui.



Pai Contra Mãe

Por Machado de Assis

A Escravidão levou consigo ofícios e aparelhos, como terá sucedido a outras instituições sociais. Não cito alguns aparelhos senão por se ligarem a certo ofício. Um deles era o ferro ao pescoço, outro o ferro ao pé; havia também a máscara de folha-deflandres.

A máscara fazia perder o vício da embriaguez aos escravos, por lhes tapar a boca. Tinha só três buracos, dous para ver, um para respirar, e era fechada atrás da cabeça por um cadeado. Com o vício de beber, perdiam a tentação de furtar, porque geralmente era dos vinténs do senhor que eles tiravam com que matar a sede, e aí ficavam dous pecados extintos, e a sobriedade e a honestidade certas. Era grotesca tal máscara, mas a ordem social e humana nem sempre se alcança sem o grotesco, e alguma vez o cruel. Os funileiros as tinham penduradas, à venda, na porta das lojas. Mas não cuidemos de máscaras.

O ferro ao pescoço era aplicado aos escravos fujões. Imaginai uma coleira grossa, com a haste grossa também à direita ou à esquerda, até ao alto da cabeça e fechada atrás com chave. Pesava, naturalmente, mas era menos castigo que sinal. Escravo que fugia assim, onde quer que andasse, mostrava um reincidente, e com pouco era pegado.

Há meio século, os escravos fugiam com freqüência. Eram muitos, e nem todos gostavam da escravidão. Sucedia ocasionalmente apanharem pancada, e nem todos gostavam de apanhar pancada. Grande parte era apenas repreendida; havia alguém de casa que servia de padrinho, e o mesmo dono não era mau; além disso, o sentimento da propriedade moderava a ação, porque dinheiro também dói. A fuga repetia-se, entretanto. Casos houve, ainda que raros, em que o escravo de contrabando, apenas comprado no Valongo, deitava a correr, sem conhecer as ruas da cidade. Dos que seguiam para casa, não raro, apenas ladinos, pediam ao senhor que lhes marcasse aluguel, e iam ganhá-lo fora, quitandando.

Quem perdia um escravo por fuga dava algum dinheiro a quem lho levasse. Punha anúncios nas folhas públicas, com os sinais do fugido, o nome, a roupa, o defeito físico, se o tinha, o bairro por onde andava e a quantia de gratificação. Quando não vinha a quantia, vinha promessa: "gratificar-se-á generosamente", - ou "receberá uma boa gratificação". Muita vez o anúncio trazia em cima ou ao lado uma vinheta, figura de preto, descalço, correndo, vara ao ombro, e na ponta uma trouxa. Protestava-se com todo o rigor da lei contra quem o acoutasse.

Ora, pegar escravos fugidios era um ofício do tempo. Não seria nobre, mas por ser instrumento da força com que se mantêm a lei e a propriedade, trazia esta outra nobreza implícita das ações reivindicadoras. Ninguém se metia em tal ofício por desfastio ou estudo; a pobreza, a necessidade de uma achega, a inaptidão para outros trabalhos, o acaso, e alguma vez o gosto de servir também, ainda que por outra via, davam o impulso ao homem que se sentia bastante rijo para pôr ordem à desordem.

Cândido Neves, - em família, Candinho,- é a pessoa a quem se liga a história de uma fuga, cedeu à pobreza, quando adquiriu o ofício de pegar escravos fugidos. Tinha um defeito grave esse homem, não agüentava emprego nem ofício, carecia de estabilidade; é o que ele chamava caiporismo. Começou por querer aprender tipografia, mas viu cedo que era preciso algum tempo para compor bem, e ainda assim talvez não ganhasse o bastante; foi o que ele disse a si mesmo. O comércio chamou-lhe a atenção, era carreira boa. Com algum esforço entrou de caixeiro para um armarinho. A obrigação, porém, de atender e servir a todos feria-o na corda do orgulho, e ao cabo de cinco ou seis semanas estava na rua por sua vontade. Fiel de cartório, contínuo de uma repartição anexa ao

Ministério do Império, carteiro e outros empregos foram deixados pouco depois de obtidos.

Quando veio a paixão da moça Clara, não tinha ele mais que dívidas, ainda que poucas, porque morava com um primo, entalhador de ofício. Depois de várias tentativas para obter emprego, resolveu adotar o ofício do primo, de que aliás já tomara algumas lições. Não lhe custou apanhar outras, mas, querendo aprender depressa, aprendeu mal. Não fazia obras finas nem complicadas, apenas garras para sofás e relevos comuns para cadeiras. Queria ter em que trabalhar quando casasse, e o casamento não se demorou muito.

Contava trinta anos. Clara vinte e dous. Ela era órfã, morava com uma tia, Mônica, e cosia com ela. Não cosia tanto que não namorasse o seu pouco, mas os namorados apenas queriam matar o tempo; não tinham outro empenho. Passavam às tardes, olhavam muito para ela, ela para eles, até que a noite a fazia recolher para a costura. O que ela notava é que nenhum deles lhe deixava saudades nem lhe acendia desejos. Talvez nem soubesse o nome de muitos. Queria casar, naturalmente. Era, como lhe dizia a tia, um pescar de caniço, a ver se o peixe pegava, mas o peixe passava de longe; algum que parasse, era só para andar à roda da isca, mirá-la, cheirá-la, deixá-la e ir a outras.

O amor traz sobrescritos. Quando a moça viu Cândido Neves, sentiu que era este o possível marido, o marido verdadeiro e único. O encontro deu-se em um baile; tal foi - para lembrar o primeiro ofício do namorado, - tal foi a página inicial daquele livro, que tinha de sair mal composto e pior brochado. O casamento fez-se onze meses depois, e foi a mais bela festa das relações dos noivos. Amigas de Clara, menos por amizade que por inveja, tentaram arredá-la do passo que ia dar. Não negavam a gentileza do noivo, nem o amor que lhe tinha, nem ainda algumas virtudes; diziam que era dado em demasia a patuscadas.

-Pois ainda bem, replicava a noiva; ao menos, não caso com defunto. --Não, defunto não; mas é que...

Não diziam o que era. Tia Mônica, depois do casamento, na casa pobre onde eles se foram abrigar, falou-lhes uma vez nos filhos possíveis. Eles queriam um, um só, embora viesse agravar a necessidade.

-Vocês, se tiverem um filho, morrem de fome, disse a tia à sobrinha.


-Nossa Senhora nos dará de comer, acudiu Clara. Tia Mônica devia ter-lhes feito a advertência, ou ameaça, quando ele lhe foi pedir a mão da moça; mas também ela era amiga de patuscadas, e o casamento seria uma festa, como foi.

A alegria era comum aos três. O casal ria a propósito de tudo. Os mesmos nomes eram objeto de trocados, Clara, Neves, Cândido; não davam que comer, mas davam que rir, e o riso digeria-se sem esforço.

Ela cosia agora mais, ele saía a empreitadas de uma cousa e outra; não tinha emprego certo.

Nem por isso abriam mão do filho. O filho é que, não sabendo daquele desejo específico, deixava-se estar escondido na eternidade. Um dia. porém, deu sinal de si a criança; varão ou fêmea, era o fruto abençoado que viria trazer ao casal a suspirada ventura. Tia Mônica ficou desorientada, Cândido e Clara riram dos seus sustos.

-Deus nos há de ajudar, titia, insistia a futura mãe.

A notícia correu de vizinha a vizinha. Não houve mais que espreitar a aurora do dia grande. A esposa trabalhava agora com mais vontade, e assim era preciso, uma vez que, além das costuras pagas, tinha de ir fazendo com retalhos o enxoval da criança. À força de pensar nela, vivia já com ela, media-lhe fraldas, cosia-lhe camisas. A porção era escassa, os intervalos longos. Tia Mônica ajudava, é certo, ainda que de má vontade.

-Vocês verão a triste vida, suspirava ela. -Mas as outras crianças não nascem também? perguntou Clara. -Nascem, e acham sempre alguma cousa certa que comer, ainda que pouco... -Certa como? -Certa, um emprego, um ofício, uma ocupação, mas em que é que o pai dessa infeliz criatura que aí vem gasta o tempo?

Cândido Neves, logo que soube daquela advertência, foi ter com a tia, não áspero mas muito menos manso que de costume, e lhe perguntou se já algum dia deixara de comer. -A senhora ainda não jejuou senão pela semana santa, e isso mesmo quando não quer jantar comigo. Nunca deixamos de ter o nosso bacalhau... -Bem sei, mas somos três. - Seremos quatro. -Não é a mesma cousa. - Que quer então que eu faça, além do que faço? - Alguma cousa mais certa. Veja o marceneiro da esquina, o homem do armarinho, o tipógrafo que casou sábado, todos têm um emprego certo... Não fique zangado; não digo que você seja vadio, mas a ocupação que escolheu é vaga. Você passa semanas sem vintém. - Sim, mas lá vem uma noite que compensa tudo, até de sobra. Deus não me abandona, e preto fugido sabe que comigo não brinca; quase nenhum resiste, muitos entregam-se logo.

Tinha glória nisto, falava da esperança como de capital seguro. Daí a pouco ria, e fazia rir à tia, que era naturalmente alegre, e previa uma patuscada no batizado.

Cândido Neves perdera já o ofício de entalhador, como abrira mão de outros muitos, melhores ou piores. Pegar escravos fugidos trouxe-lhe um encanto novo. Não obrigava a estar longas horas sentado. Só exigia força, olho vivo, paciência, coragem e um pedaço de corda. Cândido Neves lia os anúncios, copiava-os, metia-os no bolso e saía às pesquisas. Tinha boa memória. Fixados os sinais e os costumes de um escravo fugido, gastava pouco tempo em achá-lo, segurá-lo, amarrá-lo e levá-lo. A força era muita, a agilidade também. Mais de uma vez, a uma esquina, conversando de cousas remotas, via passar um escravo como os outros, e descobria logo que ia fugido, quem era, o nome, o dono, a casa deste e a gratificação; interrompia a conversa e ia atrás do vicioso.
Não o apanhava logo, espreitava lugar azado, e de um salto tinha a gratificação nas mãos. Nem sempre saía sem sangue, as unhas e os dentes do outro trabalhavam, mas geralmente ele os vencia sem o menor arranhão.

Um dia os lucros entraram a escassear. Os escravos fugidos não vinham já, como dantes, meter-se nas mãos de Cândido Neves. Havia mãos novas e hábeis. Como o negócio crescesse, mais de um desempregado pegou em si e numa corda, foi aos jornais, copiou anúncios e deitou-se à caçada. No próprio bairro havia mais de um competidor. Quer dizer que as dívidas de Cândido Neves começaram de subir, sem aqueles pagamentos prontos ou quase prontos dos primeiros tempos. A vida fez-se difícil e dura. Comia-se fiado e mal; comia-se tarde. O senhorio mandava pelo aluguéis.

Clara não tinha sequer tempo de remendar a roupa ao marido, tanta era a necessidade de coser para fora. Tia Mônica ajudava a sobrinha, naturalmente. Quando ele chegava à tarde, via-se-lhe pela cara que não trazia vintém. Jantava e saía outra vez, à cata de algum fugido. Já lhe sucedia, ainda que raro, enganar-se de pessoa, e pegar em escravo fiel que ia a serviço de seu senhor; tal era a cegueira da necessidade. Certa vez capturou um preto livre; desfez-se em desculpas, mas recebeu grande soma de murros que lhe deram os parentes do homem.

-É o que lhe faltava! exclamou a tia Mônica, ao vê-lo entrar, e depois de ouvir narrar o equívoco e suas conseqüências. Deixe-se disso, Candinho; procure outra vida, outro emprego.

Cândido quisera efetivamente fazer outra cousa, não pela razão do conselho, mas por simples gosto de trocar de ofício; seria um modo de mudar de pele ou de pessoa. O pior é que não achava à mão negócio que aprendesse depressa.

A natureza ia andando, o feto crescia, até fazer-se pesado à mãe, antes de nascer. Chegou o oitavo mês, mês de angústias e necessidades, menos ainda que o nono, cuja narração dispenso também. Melhor é dizer somente os seus efeitos. Não podiam ser mais amargos.

-Não, tia Mônica! bradou Candinho, recusando um conselho que me custa escrever, quanto mais ao pai ouvi-lo. Isso nunca!

Foi na última semana do derradeiro mês que a tia Mônica deu ao casal o conselho de levar a criança que nascesse à Roda dos enjeitados. Em verdade, não podia haver palavra mais dura de tolerar a dous jovens pais que espreitavam a criança, para beijá-la, guardá-la, vê-la rir, crescer, engordar, pular... Enjeitar quê? enjeitar como? Candinho arregalou os olhos para a tia, e acabou dando um murro na mesa de jantar. A mesa, que era velha e desconjuntada, esteve quase a se desfazer inteiramente. Clara interveio. - Titia não fala por mal, Candinho. -Por mal? replicou tia Mônica. Por mal ou por bem, seja o que for, digo que é o melhor que vocês podem fazer. Vocês devem tudo; a carne e o feijão vão faltando. Se não aparecer algum dinheiro, como é que a família há de aumentar? E depois, há tempo; mais tarde, quando o senhor tiver a vida mais segura, os filhos que vierem serão recebidos com o mesmo cuidado que este ou maior. Este será bem criado, sem lhe faltar nada. Pois então a Roda é alguma praia ou monturo? Lá não se mata ninguém, ninguém morre à toa, enquanto que aqui é certo morrer, se viver à míngua. Enfim...

Tia Mônica terminou a frase com um gesto de ombros, deu as costas e foi meter-se na alcova. Tinha já insinuado aquela solução, mas era a primeira vez que o fazia com tal franqueza e calor,- crueldade, se preferes. Clara estendeu a mão ao marido, como a amparar-lhe o ânimo; Cândido Neves fez uma careta, e chamou maluca à tia, em voz baixa. A ternura dos dous foi interrompida por alguém que batia à porta da rua.

-Quem é? perguntou o marido. -Sou eu.

Era o dono da casa, credor de três meses de aluguel, que vinha em pessoa ameaçar o inquilino. Este quis que ele entrasse.

-Não é preciso... -Faça favor.

O credor entrou e recusou sentar-se, deitou os olhos à mobília para ver se daria algo à penhora; achou que pouco. Vinha receber os aluguéis vencidos, não podia esperar mais; se dentro de cinco dias não fosse pago, pô-lo-ia na rua. Não havia trabalhado para regalo dos outros. Ao vê-lo, ninguém diria que era proprietário; mas a palavra supria o que faltava ao gesto, e o pobre Cândido Neves preferiu calar a retorquir. Fez uma inclinação de promessa e súplica ao mesmo tempo. O dono da casa não cedeu mais.

-Cinco dias ou rua! repetiu, metendo a mão no ferrolho da porta e saindo.

Candinho saiu por outro lado. Nesses lances não chegava nunca ao desespero, contava com algum empréstimo, não sabia como nem onde, mas contava. Demais, recorreu aos anúncios. Achou vários, alguns já velhos, mas em vão os buscava desde muito. Gastou algumas horas sem proveito, e tornou para casa. Ao fim de quatro dias, não achou recursos; lançou mão de empenhos, foi a pessoas amigas do proprietário, não alcançando mais que a ordem de mudança.

A situação era aguda. Não achavam casa, nem contavam com pessoa que lhes emprestasse alguma; era ir para a rua. Não contavam com a tia. Tia Mônica teve arte de alcançar aposento para os três em casa de uma senhora velha e rica, que lhe prometeu emprestar os quartos baixos da casa, ao fundo da cocheira, para os lados de um pátio.

Teve ainda a arte maior de não dizer nada aos dous, para que Cândido Neves, no desespero da crise começasse por enjeitar o filho e acabasse alcançando algum meio seguro e regular de obter dinheiro; emendar a vida, em suma. Ouvia as queixas de Clara, sem as repetir, é certo, mas sem as consolar. No dia em que fossem obrigados a deixar a casa, fá-los-ia espantar com a notícia do obséquio e iriam dormir melhor do que cuidassem.

Assim sucedeu. Postos fora da casa, passaram ao aposento de favor, e dous dias depois nasceu a criança. A alegria do pai foi enorme, e a tristeza também. Tia Mônica insistiu em dar a criança à Roda. "Se você não a quer levar, deixe isso comigo; eu vou à Rua dos Barbonos." Cândido Neves pediu que não, que esperasse, que ele mesmo a levaria. Notai que era um menino, e que ambos os pais desejavam justamente este sexo. Mal lhe deram algum leite; mas, como chovesse à noite, assentou o pai levá-lo à Roda na noite seguinte.

Naquela reviu todas as suas notas de escravos fugidos . As gratificações pela maior parte eram promessas; algumas traziam a soma escrita e escassa. Uma, porém, subia a cem mil-réis. Tratava-se de uma mulata; vinham indicações de gesto e de vestido. Cândido Neves andara a pesquisá-la sem melhor fortuna, e abrira mão do negócio; imaginou que algum amante da escrava a houvesse recolhido. Agora, porém, a vista nova da quantia e a necessidade dela animaram Cândido Neves a fazer um grande esforço derradeiro. Saiu de manhã a ver e indagar pela Rua e Largo da Carioca, Rua do Parto e da Ajuda, onde ela parecia andar, segundo o anúncio. Não a achou; apenas um farmacêutico da Rua da Ajuda se lembrava de ter vendido uma onça de qualquer droga, três dias antes, à pessoa que tinha os sinais indicados. Cândido Neves parecia falar como dono da escrava, e agradeceu cortesmente a notícia. Não foi mais feliz com outros fugidos de gratificação incerta ou barata.

Voltou para a triste casa que lhe haviam emprestado. Tia Mônica arranjara de si mesma a dieta para a recente mãe, e tinha já o menino para ser levado à Roda. O pai, não obstante o acordo feito, mal pôde esconder a dor do espetáculo. Não quis comer o que tia Mônica lhe guardara; não tinha fome, disse, e era verdade. Cogitou mil modos de ficar com o filho; nenhum prestava. Não podia esquecer o próprio albergue em que vivia. Consultou a mulher, que se mostrou resignada. Tia Mônica pintara-lhe a criação do menino; seria maior a miséria, podendo suceder que o filho achasse a morte sem recurso. Cândido Neves foi obrigado a cumprir a promessa; pediu à mulher que desse ao filho o resto do leite que ele beberia da mãe. Assim se fez; o pequeno adormeceu, o pai pegou dele, e saiu na direção da Rua dos Barbonos.

Que pensasse mais de uma vez em voltar para casa com ele, é certo; não menos certo é que o agasalhava muito, que o beijava, que cobria o rosto para preservá-lo do sereno. Ao entrar na Rua da Guarda Velha, Cândido Neves começou a afrouxar o passo. --Hei de entregá-lo o mais tarde que puder, murmurou ele. Mas não sendo a rua infinita ou sequer longa, viria a acabá-la; foi então que lhe ocorreu entrar por um dos becos que ligavam aquela à Rua da Ajuda. Chegou ao fim do beco e, indo a dobrar à direita, na direção do Largo da Ajuda, viu do lado oposto um vulto de mulher; era a mulata fugida. Não dou aqui a comoção de Cândido Neves por não podê-lo fazer com a intensidade real. Um adjetivo basta; digamos enorme. Descendo a mulher, desceu ele também; a poucos passos estava a farmácia onde obtivera a informação, que referi acima. Entrou, achou o farmacêutico, pediu-lhe a fineza de guardar a criança por um instante; viria buscá-la sem falta.

-Mas...

Cândido Neves não lhe deu tempo de dizer nada; saiu rápido, atravessou a rua, até ao ponto em que pudesse pegar a mulher sem dar alarma. No extremo da rua, quando ela ia a descer a de S. José, Cândido Neves aproximou-se dela. Era a mesma, era a mulata fujona. --Arminda! bradou, conforme a nomeava o anúncio.

Arminda voltou-se sem cuidar malícia. Foi só quando ele, tendo tirado o pedaço de corda da algibeira, pegou dos braços da escrava, que ela compreendeu e quis fugir. Era

já impossível. Cândido Neves, com as mãos robustas, atava-lhe os pulsos e dizia que andasse. A escrava quis gritar, parece que chegou a soltar alguma voz mais alta que de costume, mas entendeu logo que ninguém viria libertá-la, ao contrário. Pediu então que a soltasse pelo amor de Deus.


--Estou grávida, meu senhor! exclamou. Se Vossa Senhoria tem algum filho, peço-lhe por amor dele que me solte; eu serei tua escrava, vou servi-lo pelo tempo que quiser. Me solte, meu senhor moço! - Siga! repetiu Cândido Neves. -Me solte! -Não quero demoras; siga!

Houve aqui luta, porque a escrava, gemendo, arrastava-se a si e ao filho. Quem passava ou estava à porta de uma loja, compreendia o que era e naturalmente não acudia. Arminda ia alegando que o senhor era muito mau, e provavelmente a castigaria com açoutes,--cousa que, no estado em que ela estava, seria pior de sentir. Com certeza, ele lhe mandaria dar açoutes.

-Você é que tem culpa. Quem lhe manda fazer filhos e fugir depois? perguntou Cândido Neves.

Não estava em maré de riso, por causa do filho que lá ficara na farmácia, à espera dele. Também é certo que não costumava dizer grandes cousas. Foi arrastando a escrava pela Rua dos Ourives, em direção à da Alfândega, onde residia o senhor. Na esquina desta a luta cresceu; a escrava pôs os pés à parede, recuou com grande esforço, inutilmente. O que alcançou foi, apesar de ser a casa próxima, gastar mais tempo em lá chegar do que devera. Chegou, enfim, arrastada, desesperada, arquejando. Ainda ali ajoelhou-se, mas em vão. O senhor estava em casa, acudiu ao chamado e ao rumor.

-Aqui está a fujona, disse Cândido Neves. - É ela mesma. -Meu senhor! -Anda, entra...

Arminda caiu no corredor. Ali mesmo o senhor da escrava abriu a carteira e tirou os cem mil-réis de gratificação. Cândido Neves guardou as duas notas de cinqüenta mil-réis, enquanto o senhor novamente dizia à escrava que entrasse. No chão, onde jazia, levada do medo e da dor, e após algum tempo de luta a escrava abortou.

O fruto de algum tempo entrou sem vida neste mundo, entre os gemidos da mãe e os gestos de desespero do dono. Cândido Neves viu todo esse espetáculo. Não sabia que horas eram. Quaisquer que fossem, urgia correr à Rua da Ajuda, e foi o que ele fez sem querer conhecer as conseqüências do desastre.

Quando lá chegou, viu o farmacêutico sozinho, sem o filho que lhe entregara. Quis esganá-lo. Felizmente, o farmacêutico explicou tudo a tempo; o menino estava lá dentro com a família, e ambos entraram. O pai recebeu o filho com a mesma fúria com que pegara a escrava fujona de há pouco, fúria diversa, naturalmente, fúria de amor. Agradeceu depressa e mal, e saiu às carreiras, não para a Roda dos enjeitados, mas para a casa de empréstimo com o filho e os cem mil-réis de gratificação. Tia Mônica, ouvida a explicação, perdoou a volta do pequeno, uma vez que trazia os cem mil-réis. Disse, é verdade, algumas palavras duras contra a escrava, por causa do aborto, além da fuga. Cândido Neves, beijando o filho, entre lágrimas, verdadeiras, abençoava a fuga e não se lhe dava do aborto.

-Nem todas as crianças vingam, bateu-lhe o coração.

sexta-feira, 19 de novembro de 2010

Discurso do Presidente Juscelino Kubitschek ao inaugurar o Palácio da Alvorada, em 30 de junho de 1958.






04 de Junho de 2009


“Entre os conselhos que me deu o venerando e antigo Arcebispo de Diamantina, Dom Serafim Gomes Jardim, no começo da jornada política que me conduziu à chefia do Governo, figurava o de cultivar a virtude da paciência. Vendo-me preparado para enfrentar tempestades, lutas e maldades em viagem tão perigosa, pediu-me o Santo Homem que me munisse de prudência e paciência, elementos indispensáveis e preciosos nessa longa caminhada. Posso, examinando-me detidamente, concluir que não dispensei o conselho amigo e que, se pude realizar alguma coisa de positivo do meu ambicioso programa, sem dúvida o devo a ter medido as minhas forças antes de cada passo, e ter exercido, até ao grau da mortificação, a paciência.

Brasília é um dos frutos da paciência que Deus me deu. Tenho-a mantido ao ouvir críticas e comentários os mais injustos e, mais do que injustos, repassados de incompreensão, esta acirrada inimiga da paciência. A injustiça tem sua origem quase sempre na paixão cega. A incompreensão, entretanto, porque uma forma de injustiça total, é o que mais fortemente acicata a paciência. É a incompreensão o mais escarpado de todos os óbices que devemos galgar, ainda que com as maiores dificuldades, para avançar e prosseguir na rota em que nos empenhamos.

A iniciativa de Brasília tem sido posta em dúvida por alguns setores da opinião pública. Sobre a operação da mudança de nossa Capital se fizeram ouvir, até agora, palavras vãs, erros de apreciação e, principalmente demonstrações que revelam desconhecimento da magnitude do efeito. Mas é preciso frisar que a idéia de Brasília já se enraizou no espírito dos homens de boa vontade, dos que não tem outro interesse e outro alvo senão o de querer arrancar da improdutividade uma imensa extensão territorial brasileira. Minha paciência em não discutir o que sei fruto da falta de visão, em suportar observações improcedentes, não me arrefeceu o ânimo e a resolução de levar avante a empresa que talvez pareça arrojada, mas que é medida inadiável e urgente para a transformação deste país.

Não podemos continuar indefinidamente a ser um território manchado de desertos, com uma população na sua maior parte colada ao litoral, com as mais ricas zonas do nosso território abandonadas e que servem apenas para referências literárias.

O nosso destino de ser grande nação é tão imperioso e forte, que é temeridade contrariá-lo, sufocá-lo. Nascemos com proporções continentais; nossa visão humana não pode ser menos ampla que a nossa realidade geográfica. Não teríamos proposto que se iniciasse um combate tenaz ao subdesenvolvimento em todo este hemisfério, sem que em nosso próprio território tivéssemos dado o exemplo dessa decisão. Esse combate, essa bandeira que acenamos aos países irmãos do Continente, a fim de que se revigore a unidade da América e não se perca o elevado ideal do pan-americanismo, está a exigir de todos os brasileiros decisão e firmeza.

Aproveito esta hora, de importância decisiva para o nosso destino de grande nação, em que lutamos e empreendemos urgentes esforços para assegurar ao Brasil a posição a que tem direito, e diante da responsabilidade que assumimos no campo internacional, desejosos de promover a harmonia e o fortalecimento de todo o Continente, aproveito esta hora para fazer um apelo a todos os brasileiros. O meu apelo é no sentido da paz e da união, não em torno de meu governo e da minha pessoa, que somos passageiros, mas em torno do Brasil, que desejamos eterno, do ideal que nos inspira, para que a nossa voz se faça ouvir forte e clara, acima dos ressentimentos e das dissenções momentâneas.

Mas a luta pelo desenvolvimento deve começar em nosso próprio país. E Brasília é um dos pontos básicos dessa luta de integrar o Brasil no seu território, de fortalecer a nação. Brasília não resulta apenas da obrigação de obedecer a um preceito constitucional: é um marco, é a bandeira de luta contra o subdesenvolvimento. E é mais que isso: é a conquista do que tem sido nosso apenas no mapa.

Não quero perder-me em palavras, nem com elas elevar torres de sonhos. A verdade e a justiça reclamam que o povo brasileiro seja informado e se dê conta de que estamos empreendendo a suspirada marcha para o Oeste, tão decantada e tão prometida, por anos e anos, à nossa gente.

Longe dos olhos citadinos, por entre dificuldades e tropeços de toda a sorte, vamos caminhando na conquista do Brasil. Enquanto nos distraímos e reclamamos nas cidades cheias de luz; enquanto nos empenhamos em debates políticos e outros, há um exército de vinte mil trabalhadores praticando feitos memoráveis no coração de nosso país, entre os quais a construção da estrada que em breve ligará diretamente a nova Capital da República à Região amazônica. É a Brasília-Belém, de dois mil e duzentos quilômetros, dos quais, já estão prontos 1.050. Trata-se, sem hipérbole, do desbravamento da grande selva. Quinhentos e cinqüenta quilômetros se abrem no meio de uma floresta densa, em que as árvores se perdem em alturas que custamos a crer, atingindo algumas até 70 metros. É um pedaço do Brasil que jamais, até hoje, nenhum homem da civilização trilhara. Reino de bichos selvagens, onde apenas alguns índios logram suportar o ambiente hostil.

Vinte mil seres, nossos irmãos, estabelecem a ligação entre a cidade que acaba de nascer e essa Amazônia que deixará de ser a misteriosa terra que Euclides da Cunha descreveu como mal despertando de um sono cósmico. Para se ter uma noção mais completa ainda de que tudo está por fazer nesse mundo de Deus, basta lembrar, aqui, que só agora um rio da importância do Tocantins vai ser atravessado por uma ponte de mil e duzentos metros.

Mas não é apenas essa obra ciclópica que está sendo tocada com rapidez inusitada. O plano de comunicações envolvendo Brasília e toda a região vai sendo executado com a perfeição e urgência possíveis. A rodovia Anápolis-Brasília acha-se concluída, com 130 quilometros asfaltados, estabelecendo assim a ligação indispensável da nova cidade com a Estrada de Ferro de Goiás. Já vai sendo também levada adiante a ligação São Paulo-Brasília. Até aqui só se faziam estradas de primeira qualidade para unir cidades importantes a sítios amenos, de prazer e veraneio. O Brasil oculto, pelo abandono e pelo esquecimento, não merecia grandes atenções. Em 1960 espero em Deus, com o esforço de nossos engenheiros e trabalhadores, que não só esta estrada, mas as outras projetadas também, como Rio-Belo Horizonte-Brasília, sejam entregues ao tráfego.

Vai fazer um ano e meio que desci aqui num campo de pouso provisório. Nada havia ainda. A mão do homem não erguera construção, nem cultivara terra. Era o campo bruto, a solidão, os horizontes rasgados do oeste. Aos pioneiros que deviam iniciar a ofensiva conquistadora cedeu o Exército barracas de campanha. Mas na primeira noite não foi possível a ninguém dormir. Uma onça rondava os pousos dos novos bandeirantes. Já vamos longe desse primeiro encontro que pertence ao dia de ontem, ainda quente, mas que em breve será uma hora na história de nossa civilização. Parece distante, pelo progresso que conquistamos, aquela primeira missa que aqui rezou Sua Eminência o Cardeal Dom Carlos Carmelo de Vasconcelos Mota, num altar armado no tempo, e cujas sábias e inspiradas palavras guardamos carinhosamente nas páginas iniciais da crônica de Brasília, que o futuro escreverá. O primeiro templo, dedicado à Senhora de Fátima, eleva-se na sua singeleza. O primeiro hotel, correto e moderno, se abre para atender aos que incessantemente procuram Brasília. O palácio do governo está concluído.

Experimento, meus senhores, uma sensação que se assemelha à da tranqüilidade. Vejo que o sonho adquire bases firmes de realidade; que tudo começa a concretizar-se.

Sei que não são pequenos os investimentos, mas sei também que são os mais mutáveis e certos que este país já fez até aqui em favor da unidade nacional e que libertarão o Brasil de muitas limitações. O país, forte e rico de amanhã, pagará facilmente o empréstimo que o país necessitado de hoje lhe faz. Chegou o momento de realizar-se a operação em benefício da saúde do Brasil.

As pequenas soluções não passam de paliativos que permitem apenas enfrentar as dificuldades de todo o dia. A mudança a que estamos procedendo, e que já procedemos, corresponde, pelos seus efeitos, a uma mudança do Brasil. É singular que se inquira de inoportuna e rentabilíssima operação que nos dará posse de nós mesmos, que nos trará possibilidades reais e a curto prazo, se medirmos os dias ao ritmo próprio das nações.

Alega-se que a geração atual está sendo sacrificada por uma idéia que só trará beneficio às gerações futuras. E se assim fosse? Haverá alguma coisa que mais eleve e justifique a vida humana do que essa oferenda de nós mesmos aos que nos sucederão no tempo? Condenar Brasília, porque não é para os nossos dias, e porque é um problema adiável, é atentar contra a verdade três vezes. O primeiro atentado vai contra a cidade mesma que já começa a erguer-se. Veremos, dentro em breve, em pleno funcionamento, a nova Capital dos Estados Unidos do Brasil. Ei-la jovem, mas presente. Outro atentado é alegar que poderíamos adiar a mudança, o que equivale, em termos exatos, a adiar a recuperação do Oeste brasileiro.

Digo e repito, e em dias futuros estas palavras serão mais bem compreendidas do que hoje – Brasília era inadiável. Mas apenas para argumentar – mesmo que não pudessem os homens de hoje ver viva a nova cidade, condená-la por esta razão – eis o terceiro atentado – seria condenar que se lançasse à terra a semente de uma árvore que fosse frutificar quando a mão do semeador se tivesse transformado em cinza. Ainda que esta árvore, que já surge aos nossos olhos com ramos promissores, levasse um século para crescer, não nos teríamos precipitado em plantá-la. Compreendo que alguns duvidem deste empreendimento. É que a razão de se estar mudando a capital para o centro do país é uma razão de fé, de confiança no Brasil. Quem tem confiança no Brasil crê em Brasília.

Tenho fé neste país. A fé que o Brasil me inspira é que me faz enfrentar lutas e cansaços e multiplicar a minha resistência. Não desconheço que as dificuldades que nos cercam são ponderáveis. Quem as conhece melhor do que eu? Mas como tenho fé, e estou apoiado em homens de fé, aí está a nova capital. Aí está Brasília que é, não o fim ou o objetivo de nossas lutas, mas o marco inicial desta dura e difícil jornada em demanda do grande Brasil.”

Discurso do Presidente Juscelino Kubitschek ao inaugurar o Palácio da Alvorada, em 30 de junho de 1958.


Rogel Samuel: AS ÁGUAS NEGRAS DA MORTE


AS ÁGUAS NEGRAS DA MORTE

Rogel Samuel


Era noite de natal.

No natal, a Edilene tomou o barco no Paraná da Eva, em Itacoatiara, a 270 km de Manaus, com seus dois filhos, Heloisa de 4 anos e Kelvin, de sete.

Era noite escura de natal, naquele último natal.

No meio da viagem, durante a travessia do rio, o barqueiro, um jovem de 16 anos, resolve matar Edilene, jogando-a na água, para apropriar-se de sua bolsa, onde havia R$ 90,00.

Empurrou-a na água.

Na luta que se seguiu, a bolsa também caiu. Perdeu-se. O barqueiro volta para Itacoatiara.

Como as crianças gritam e choram, ele as jogou no rio.

«Eu os joguei no rio porque eles estavam gritando muito chamando pela mãe e isso me deixou irritado».

Entretanto, Edilene, a mãe, conseguiu salvar-se a nado.

Deu com um banco de areia, e foi achada naquela mesma noite por outros dois meninos que brincavam.

Eram outros dois meninos, mas não eram os seus.

Os seus desapareceram.

Era noite de natal.

Sim, era.

(A notícia estava nos jornais de Manaus).

quarta-feira, 17 de novembro de 2010

Colônia, Monarquia, República: pactos de elite na história brasileira


Blog do Emir Sader| Copyleft Blog do Emir Sader, sociólogo e cientista, mestre em filosofia política e doutor em ciência política pela USP - Universidade de São Paulo.

Colônia, Monarquia, República: pactos de elite na história brasileira


EMIR SADER

Tivemos a proclamação da República mais de seis décadas depois da independência, porque esta nos levou de Colônia à Monarquia pelas mãos do monarca português, que ainda nos ofendeu, com as palavras – que repetíamos burocraticamente na escola- “antes que algum aventureiro o faça”. Aventureiros éramos nós, algum outro Tiradentes, ou algum Bolívar, Artigas, Sucre, San Martin O´Higgins, que lideraram revoluções de independência nos seus países, expulsando os colonizadores em processos articulados dos países da região.

Foi o primeiro pacto de elite da nossa história, em que as elites mudam a forma da dominação, para imprimir continuidade a ela, sob outra forma política. Neste caso, impôs-se a monarquia. Tivemos dois monarcas descendentes da família imperial portuguesa, ao invés da República, construindo estados nacionais independentes, expulsando os colonizadores ao invés do “jeitinho” da conciliação.

Como sempre acontece com os pactos de elite, o povo é quem paga o seu preço. Enquanto nos outros países do continente, as guerras de independência terminaram imediatamente com a escravidão, esta se prolongou no Brasil, fazendo com que fossemos o último país a terminar com ela, prolongando-a por várias décadas mais. Nesse intervalo de tempo foi proclamada a Lei de Terras, de 1850, que legalizou – mediante a grilagem, aquela falcatrua em que o documento forjado é deixado na gaveta e o cocô do grilo faz parecer um documento antigo – todas as terras nas mãos dos latifundiários. Assim, quando finalmente terminou a escravidão, não havia terras para os escravos, que se tornaram livres, mas pobres, submetidos à exploração dos donos fajutos das terras.

Dessa forma, a questão colonial se articulou com a questão racial e com a questão agrária. Esse pacto de elite responde pelo prolongado poder do latifúndio e pela discriminação contra a primeira geração de trabalhadores no Brasil, os negros que, trazidos à força da África vieram para produzir riquezas para a nobreza européia como classe inferior. Desqualificava-se ao mesmo tempo o negro e o trabalho.

A República foi proclamada como um golpe militar, que a população assistiu “bestializada”, segundo um cronista da época, sem entender do que se tratava – o segundo grande pacto de elite, que marginalizou o povo das grandes transformações históricas.

Midiendo el deshielo




Midiendo el deshielo

Con el calentamiento global golpeando duramente a la meseta tibetana, los científicos se reúnen para planificar una campaña de investigación internacional para comprender y mitigar los cambios en el ‘tercer polo’.

Jane Qiu
NATURE NEWS
10 de noviembre 2010

Frío, remoto y amenazado por el calentamiento global: la descripción se aplica no sólo a los
Polos Norte y Sur, sino también a una región de más de cinco millones de kilómetros cuadrados,
centrada en la meseta del Tíbet y el Himalaya, que los investigadores llaman el tercer polo (véase Nature 454, 393-396, 2008). Después del ártico y de la antártida, la región cuenta con
el depósito más grande de hielo de la tierra, con más de 46,000 glaciares y vastas extensiones de permahielo. Sin embargo, está mucho menos estudiado que sus contrapartes de altas latitudes, a pesar de que muchas más vidas dependen de él.

El tercer polo es también conocido como la torre de agua de Asia, debido a que sus glaciares alimentan a los ríos más grandes del continente, que sustentan a 1.5 billones de personas en diez países. Los glaciares se están derritiendo rápidamente, llenando lagos que pueden desbordarse e inundar valles. Sin embargo, poco se sabe sobre cómo el cambio climático se está desarrollando allí. Para intentar corregir esta situación, el Medio Ambiente para el Tercer Polo (TPE por sus siglas en inglés), un programa internacional dirigido por la Academia China del Instituto de Ciencias de Investigación de la Meseta Tibetana (ITP por sus siglas en inglés) en Beijing, celebró su segundo seminario el mes pasado en Katmandú. Los investigadores de la región hacían planes para llenar el vacío en el conocimiento, y discutieron los hallazgos que se suman a la urgencia.

"Todo el mundo está haciendo un trabajo importante en toda la región, pero no está claro cómo estos encajan juntos", dice Yao Tandong, director del ITP y presidente del comité de ciencia del TPE, que ayudó a organizar el taller. "La única manera de avanzar es que la comunidad internacional trabaje unida, para evaluar los riesgos asociados con el cambio climático".

Mientras que la población de la región se desarrolla, la principal prioridad de los investigadores es entender la situación y el destino de los glaciares que son una fuente vital de agua potable. El año pasado, una afirmación en el informe del 2007 del Panel Intergubernamental sobre el Cambio Climático (IPCC por sus siglas en inglés), que indica que los glaciares del Himalaya podrían desaparecer para el año 2035 resultó ser un error (véase Nature 463, 276-277, 2010). Pero los participantes en el taller argumentaron que la preocupación más amplia del IPCC por la rápida pérdida de hielo glaciar del Himalaya era correcta. "No hay duda de que muchos de los glaciares en la región están retrocediendo rápidamente", dice Baldev Raj Arora, ex director del Instituto Wadia de Geología del Himalaya en Dehradun, India.

Pero no está claro exactamente qué tan rápido, o cómo esto afectará a los recursos hídricos, porque no hay un inventario de los glaciares para toda la región. Por sí solos, los estudios de satélite ofrecen sólo una estimación aproximada de la superficie glaciar, y la lejanía, la altitud y las condiciones del severo clima dificultan la medición de la tierra.

La evidencia disponible es reveladora. Usando una combinación de mediciones por satélite y terrestres, el equipo liderado por Liu Shiyin, glaciólogo de la Academia China de Ciencias Ambientales de regiones frías y áridas, y el Instituto de Investigación de Ingeniería de
Lanzhou, acaban de terminar el segundo inventario nacional de glaciares de China, documentando unos 24,300 glaciares y registrando características, tales como su ubicación, longitud y área de superficie. Esto muestra que la superficie total de los glaciares se ha reducido en un 17% y que muchos han desaparecido desde que se inició el último inventario, hace aproximadamente 30 años.

Para hacer una mejor estimación de estos cambios, los investigadores también han medido el volumen de hielo y el balance de masa, de los glaciares representativos de diversas partes de los Himalayas. Estos arduos estudios, realizados a menudo en altitudes superiores a los 5,000 metros; muestran que "el impacto del cambio climático en algunos glaciares del Himalaya, es mucho peor de lo que se pensaba", dice Tian Lide, glaciólogo del ITP. El expansivo glaciar Kangwure en la vertiente norte de Monte Xixiabangma en el sur del Tíbet, por ejemplo, ha perdido casi la mitad de su hielo desde la década de 1970, y su espesor medio se ha reducido en 7.5 metros.

La mayoría de los glaciares en el Himalaya de la India, que han sido estudiados en detalle también están perdiendo masa, dice Arora. En todo el tercer polo "existen anomalías regionales, pero el equilibrio de la evidencia sin duda apunta hacia una tendencia de retiro rápido", con lo cual está de acuerdo Lonnie Thompson, un glaciólogo en la Universidad Estatal de Ohio en Columbus y co-presidente del Comité de Ciencia del TPE.

Peaje de carbono

Una de las causas de la retirada, es la cantidad creciente de hollín ‘humo negro’ generada por los combustibles fósiles y la quema de biomasa. Xu Baiqing, un científico del medio ambiente del ITP, que midió 50 años en los niveles de humo negro en los núcleos de hielo de cinco glaciares en diversas partes del el Himalaya, y encontró que el aumento de las emisiones desde la década de 1990, coincide con el rápido crecimiento industrial en la región. Angela Marinoni, una científica del clima del Instituto de Ciencias de la Atmósfera y el Clima en Bolonia, Italia, y sus colegas encontraron altas concentraciones de aerosoles, así como de humo negro, por encima de los 5,000 metros en el Himalaya de Nepal, lo que causó un calentamiento atmosférico significativo. Ellos calculan que la deposición de humo negro puede aumentar la fusión de la nieve y el hielo de un típico glaciar del Himalaya del 12 al 34%, reduciendo su capacidad para reflejar la luz.

Como consecuencia, los lagos glaciales son cada vez más grandes y más numerosos, causando más inundaciones. Un estudio dirigido por Yongwei Sheng, un ecologista de la Universidad de California en Los Ángeles, muestra que la zona de tales lagos en la meseta se ha incrementado en un 26% desde la década de 1970, con un efecto devastador para los pastizales circundantes. La explosión de lagos glaciales ha causado más de 40 inundaciones en el Himalaya desde la década de 1950, y habrá probablemente más en las próximas décadas, dice Pradeep Mool, un especialista en teledetección en la Conferencia Internacional Centro para el Desarrollo Integrado de las Montañas (ICIMOD por sus siglas en inglés) en Katmandú. Una encuesta del ICIMOD lista más de 20,200 lagos de origen glaciar en la región; doscientos son "potencialmente peligrosos" y necesitan de una estrecha vigilancia y un sistema de alerta temprana, dice Mool.

Hasta ahora, los científicos que tratan de predecir el futuro de los glaciares han tenido poco que hacer. Por una razón, dice Thompson, "los glaciares responden al cambio climático de manera diferente dependiendo de su tamaño, distribución de altitud, superficie cubierta de escombros y las características del valle". Y poco se sabe acerca de cómo está cambiando el clima en todo el tercer polo.

Yang Kun, un científico del clima en el ITP, encontró que muchas mediciones vía satélite
del balance de radiación de la Tierra - el equilibrio de la radiación solar entrante y el calor saliente –no funcionaba bien en las altas elevaciones del tercer polo, porque los instrumentos son típicamente calibrados y verificados con los datos de las tierras bajas. Estos pueden ser corregidos mediante medidas de campo, pero en toda la región, únicamente existen 16 estaciones meteorológicas por encima de los 5,000 metros.

Los investigadores tampoco pueden confiar en los modelos del clima. Utilizando los datos del tiempo de la única estación a 8,000 metros ubicada en el paso del Collado Sur, entre el monte Everest y Lhotse; Kenichi Ueno, un científico del clima en la Universidad de Tsukuba, Japón, mostró que los modelos climáticos mundiales no predicen bien el flujo de humedad y la radiación, a gran altura, especialmente cuando hace calor o durante la temporada del monzón. "Si usted quiere saber cómo afecta el clima los glaciares, tales detalles son cruciales" dice él. "Es muy importante contar con observaciones de más elevadas altitudes en toda la región."

Un esfuerzo conjunto

El comité de ciencia del TPE pronto redactará un borrador de un programa de investigación para documentar los efectos del cambio climático en los glaciares, el permafrost, los recursos hídricos, la biodiversidad y la población. El plan, que debe concluirse en el otoño de 2011, convocará expediciones conjuntas al Himalaya y a la meseta tibetana, y para tener estaciones de investigación multidisciplinarias a través de la región, para cubrir las principales zonas geológicas y los regímenes climáticos, así como los ríos importantes y las cuencas lacustres. Una vez que los costos se hayan definido, el comité buscará el apoyo de agencias financieras nacionales e internacionales.

La parte más importante del plan es contar con un depósito común de datos, dice Volker Mosbrugger, director de Mundo Senckenberg de la Biodiversidad, una coalición de institutos de investigación y museos de Frankfurt, Alemania, y el otro co-presidente del comité de ciencia de la TPE. Pero las rivalidades nacionales pueden interponerse en el camino, especialmente cuando los datos compartidos se refieren a recursos de agua. "Si es posible contar con una base de datos central y en ejecución, determinará si el programa puede ir más allá de su retórica", dice Gregorio Greenwood, director de la Iniciativa de Investigación de la Montaña de la Universidad de Berna. "Este será un gran desafío."


El comité elaborará una política que se negociará entre los países interesados en el programa, permitiendo a los científicos compartir información, pero dejando de lado lo que esté considerado como políticamente sensible. "Sin el trabajo conjunto y la puesta en común de los datos de todo el tercer polo", dice Yao, "la comprensión global de los mecanismos de impacto sobre el clima y la retroalimentación podría ser imposible".

Jane Qiu en Katmandú, Nepal.

Traducido al español por Lorena Wong.